Il saggio nasce dall’attività didattica svolta nel Master in Conservazione, Gestione e Valorizzazione del Patrimonio Industriale (MPI), istituito nel 2002-2003 congiuntamente dall’Università di Padova (Dipartimento di Storia), dall’Istituto Universitario di Architettura di Venezia (Dipartimento di Urbanistica), dalla Prima Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino (Dipartimento di Progettazione architettonica), in successiva convenzione con le Università di Ferrara, Perugia, Napoli, Lecce e Cagliari, e d’intesa con l’Istituto per la Cultura e la Storia d’Impresa “F. Momigliano” (Icsim) di Terni, il Comune di Schio e il Comune di Terni. L’ipotesi che qui si intende proporre è che la fabbrica non costituisca un a se stante rispetto alla città, un’occasione o un elemento isolato, per cui il progetto possa scegliere solamente di intervenire, come spesso accade, o attraverso la musealizzazione più o meno invariante o, dall’altro lato, mediante la demolizione del recinto o l’apertura fisica degli edifici che lo costituiscono al fine di ottenere una presunta riconquista di questo spazio da parte della città e l’irrompere chiassoso del nuovo per il nuovo. La città è parte della fabbrica tanto quanto la fabbrica è parte della città. Al fine di verificare questa ipotesi si sono indagati alcuni meccanismi che rendono evidenti le analogie tra la città e l’industria quali gli aspetti insediativi, l’architettura stessa nonché i fenomeni di trasformazione. Per quanto riguarda l’insediamento, sulla scorta dei testi di T. Mannoni e E. Giannichedda sull’archeologia della produzione, si mette in luce il legame stretto tra insediamento della città, insediamento della fabbrica e fonti energetiche, di approvvigionamento di materiale e di mercato. Per quanto attiene invece l’architettura, il legame tra l’industria e frammenti della città appare storicamente confermato: opificio e casa d’abitazione strettamente connessi, cascine che diventano “officine rurali”, industrie che obbediscono ai regolamenti edilizi cittadini. Infine, relativamente alle trasformazioni, viene evidenziato come i tempi della fabbrica siano come un’accelerazione dei tempi della città: demolizioni, rifacimenti, nuove addizioni avvengono in modo frenetico a seguito di innovazioni, trasformazioni produttive, questioni economiche, ecc… Lo scritto si conclude con una riflessione sul ruolo che le tecniche dello studio archeologico possono giocare nel progetto di conservazione e rifunzionalizzazione delle architetture industriali. La conservazione quindi non intesa come la mummificazione di un costruito letto nella sua immutabile icasticità, né un insieme di parti da giudicare sulla base di più o meno presunti giudizi di valore tali per cui alla sopravvivenza decontestualizzata di un pezzo, la ciminiera piuttosto che la palazzina degli uffici, la parte più antica dell’insieme piuttosto che la torre dell’acqua, corrisponde la distruzione del complesso, ma è piuttosto l’aggiunta di parti che confermino, attraverso la ripetizione e la differenza, l’identità plurima dell’insediamento, senza mai dimenticare che questa identità non si dà solo come interna al recinto, ma anche in relazione alla città costruita e al suo territorio, in una serie di rimandi che consentono di leggere le figure scaturite dall’analisi come ascalari e dunque impiegabili più volte. La possibilità poi che l’edificio preesistente possa essere letto come passibile di risignificazioni, molteplici, ma certo non infinite, pur mantenendo il proprio essere di “vuota cavità”, mostra al tema del riuso compatibile la via dell’ascolto, dell’indagine preventiva accurata, che non si limiti alla fattibilità economica, ma che ragioni in termini di disegno dell’architettura, ossia di quello strumento tecnico di conoscenza che accomuna architetti e archeologi. Dunque l’archeologia industriale non come presa d’atto della fuoriuscita di un complesso industriale dalla produzione, come approdo verso una musealizzazione paralizzante, ma come insieme di tecniche e di rappresentazioni che consentano un’ermeneutica aperta e continua.

Fabrica urbis. Restauro come progetto di architettura / Occelli, Chiara Lucia Maria - In: Progettare per il patrimonio industriale / C. Ronchetta, M. Trisciuoglio (a cura di). - STAMPA. - TORINO : CELID, 2008. - ISBN 9788876617904. - pp. 148-153

Fabrica urbis. Restauro come progetto di architettura

OCCELLI, Chiara Lucia Maria
2008

Abstract

Il saggio nasce dall’attività didattica svolta nel Master in Conservazione, Gestione e Valorizzazione del Patrimonio Industriale (MPI), istituito nel 2002-2003 congiuntamente dall’Università di Padova (Dipartimento di Storia), dall’Istituto Universitario di Architettura di Venezia (Dipartimento di Urbanistica), dalla Prima Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino (Dipartimento di Progettazione architettonica), in successiva convenzione con le Università di Ferrara, Perugia, Napoli, Lecce e Cagliari, e d’intesa con l’Istituto per la Cultura e la Storia d’Impresa “F. Momigliano” (Icsim) di Terni, il Comune di Schio e il Comune di Terni. L’ipotesi che qui si intende proporre è che la fabbrica non costituisca un a se stante rispetto alla città, un’occasione o un elemento isolato, per cui il progetto possa scegliere solamente di intervenire, come spesso accade, o attraverso la musealizzazione più o meno invariante o, dall’altro lato, mediante la demolizione del recinto o l’apertura fisica degli edifici che lo costituiscono al fine di ottenere una presunta riconquista di questo spazio da parte della città e l’irrompere chiassoso del nuovo per il nuovo. La città è parte della fabbrica tanto quanto la fabbrica è parte della città. Al fine di verificare questa ipotesi si sono indagati alcuni meccanismi che rendono evidenti le analogie tra la città e l’industria quali gli aspetti insediativi, l’architettura stessa nonché i fenomeni di trasformazione. Per quanto riguarda l’insediamento, sulla scorta dei testi di T. Mannoni e E. Giannichedda sull’archeologia della produzione, si mette in luce il legame stretto tra insediamento della città, insediamento della fabbrica e fonti energetiche, di approvvigionamento di materiale e di mercato. Per quanto attiene invece l’architettura, il legame tra l’industria e frammenti della città appare storicamente confermato: opificio e casa d’abitazione strettamente connessi, cascine che diventano “officine rurali”, industrie che obbediscono ai regolamenti edilizi cittadini. Infine, relativamente alle trasformazioni, viene evidenziato come i tempi della fabbrica siano come un’accelerazione dei tempi della città: demolizioni, rifacimenti, nuove addizioni avvengono in modo frenetico a seguito di innovazioni, trasformazioni produttive, questioni economiche, ecc… Lo scritto si conclude con una riflessione sul ruolo che le tecniche dello studio archeologico possono giocare nel progetto di conservazione e rifunzionalizzazione delle architetture industriali. La conservazione quindi non intesa come la mummificazione di un costruito letto nella sua immutabile icasticità, né un insieme di parti da giudicare sulla base di più o meno presunti giudizi di valore tali per cui alla sopravvivenza decontestualizzata di un pezzo, la ciminiera piuttosto che la palazzina degli uffici, la parte più antica dell’insieme piuttosto che la torre dell’acqua, corrisponde la distruzione del complesso, ma è piuttosto l’aggiunta di parti che confermino, attraverso la ripetizione e la differenza, l’identità plurima dell’insediamento, senza mai dimenticare che questa identità non si dà solo come interna al recinto, ma anche in relazione alla città costruita e al suo territorio, in una serie di rimandi che consentono di leggere le figure scaturite dall’analisi come ascalari e dunque impiegabili più volte. La possibilità poi che l’edificio preesistente possa essere letto come passibile di risignificazioni, molteplici, ma certo non infinite, pur mantenendo il proprio essere di “vuota cavità”, mostra al tema del riuso compatibile la via dell’ascolto, dell’indagine preventiva accurata, che non si limiti alla fattibilità economica, ma che ragioni in termini di disegno dell’architettura, ossia di quello strumento tecnico di conoscenza che accomuna architetti e archeologi. Dunque l’archeologia industriale non come presa d’atto della fuoriuscita di un complesso industriale dalla produzione, come approdo verso una musealizzazione paralizzante, ma come insieme di tecniche e di rappresentazioni che consentano un’ermeneutica aperta e continua.
2008
9788876617904
Progettare per il patrimonio industriale
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